FESTE PATRONALI


 

Feste Patronali



C'era una volta un paese dove il cielo era azzurro come i petali dei più bei fiordalisi...e ancora c'è questo paese, Santo Stefano, dove convivono in armonia Coopatroni e Santi protettori. Narravano gli antichi che a Scurcola Marsicana, quel San Vincenzo, aveva la testa troppo piccola rispetto all'imponente corpo: la statua prima o poi avrebbe fatto una triste fine. Mossi dalla compassione i santostefanesi, si recarono a piedi, nel paese che conservava la statua e la trasportarono fino a Santo Stefano, dove il culto della Cristianità superava ogni cosa. La terza domenica di Maggio era la festa di San Vincenzo Ferrer. Il giovedì alle ore 5:00, veniva esposta la statua con una solenne e commovente cerimonia: “La disposizione 'e Sammincénzo”. La domenica della festa ci si alzava all'alba. Gli uomini si prendevano cura degli animali domestici, le donne anticipavano la cottura dei cibi. Tante erano le portate a tavola da preparare; quella tavola sempre più numerosa: musicante, familiari, parenti ed amici venuti da lontano. Si preparava ogni cosa in tempo per trascorrere la festa all'insegna del rispetto reciproco, della condivisione e della contentezza, dimenticando la faticosa vita di una comunità rurale. A svegliare tutto il Paese, era il suono a “'nglaia” (a gloria) delle campane, manovrate da abili mani, sembrava quasi toccassero il cielo; persino il sole si faceva vedere e subito pensavo che il Signore lo avesse mandato per rendere ancora più bella la festa. La mattina presto in piazza arrivavano i “bandisti”, quasi sempre dalla Puglia, precisamente da Andria e da Pietrelcina; scendeva dalla corriera un'intera orchestra tutta in divisa color carta da zucchero. Ad attenderli c'erano i “festaroli” che gentilmente consegnavano a ciascuno un biglietto con scritto il nome della famiglia ospitante. Qualcuno della mia famiglia, andava a dormire nel pagliaio, pur di fare bella figura con il musicante. L'accoglienza era sacra. Ricordo che una volta, ospitammo a casa una cantante lirica. Esercitò la voce per gran parte della notte; ancora sento nell'aria quella particolare melodia e rivedo quella bella signora, con il suo lungo vestito damascato, color indaco. Quando le campane “raccennavano” tutti ci incamminavamo per ascoltare la Santa Messa. Com'era bella la nostra chiesa, sembrava una cattedrale! Addobbata con fiori di campo e con rose appena colte, era una festa di colori, di profumi; nell'aria si diffondeva odore di incenso, significava Presenza divina, una grande spiritualità. Veniva persino il Predicatore, Padre “Minicirdo”, che dal pulpito, narrava a gran voce la vita gloriosa del Santo. Ecco uscire i Gonfaloni dei Santi, si muovevano spinti dal leggero vento di primavera, a seguire le statue: San Vincenzo con la sua tromba, vestito di bianco con il mantello nero, Santo Stefano protomartire vestito di rosso, Sant' Emidio con abito episcopale color giallo oro, Sant' Antonio da Padova con il saio marrone, Santa Filomena vestita di verde e rosso scuro...e la Celeste Madonna dell'Assunta; tutti portati a spalla dopo una lunga e discussa asta. La banda accompagnava i Santi e i fedeli per le vie del Paese, con nostalgiche marcette. Durante la processione si pregava e si cantava con grande ardore. Le donne con il fazzoletto nuovo in testa e gli uomini “remmutati”in abiti rispolverati per l'occasione. Io e Maria prese per mano da mamma e da papà sembravamo gemelle, con i vestitini uguali, cuciti e decorati appositamente per la festa 'e Sammincénzo. Sull'aia del Paese le statue venivano adagiate su tavoli, ricoperti da tovaglie bianche, sapientemente ricamate; tutto era pronto per la benedizione dei campi e per cantare inni di ringraziamento. Tamburi, ottoni e clarinetti, suonavano e scintillavano al sole. Una grande devozione per una grande festa. Alcune donne camminavano a piedi nudi per tutta la processione. Ricordo in particolare la mia zia Rosalia, scalza, con il veletto nero in testa ed in mano un cero acceso, comprato ogni anno alla cereria Sidoni di Roma. Tra canti e preghiere, qualche distrazione non mancava mai. Da ogni vicolo, da ogni finestrella aperta, di là, di qua, si sprigionavano profumi di coniglio alla cacciatora, agnello al sugo, bollito con “bianchetto. Io intanto pensavo alla pizza dolce di mia nonna, un Pan di Spagna tagliato a strati, imbevuto con marsala e farcito con crema, ricoperto infine da una glassa bianca fatta di albume d'uovo e zucchero. Piano piano, i Santi, venivano accompagnati da Don Francesco e dai numerosi fedeli in chiesa. Un ultimo saluto, una preghiera, un bacio, una richiesta. L'odore di incenso era forte davvero! Dopo il lungo e prelibato pranzo, tutti ci ritrovavamo nella Piazzetta illuminata dal sole. Le due bancarelle, con bandierine e palloncini colorati, rapivano lo sguardo di noi bambini. Le noccioline americane, le “sciuscelle” (carrube), erano veramente una golosità. Il mitico Domenico Fracassi, con il suo carretto di gelati artigianali, si spostava da una parte all'altra ripetendo: “Su su! Forza bambini! Piangete che Domenico se ne va!”. Questo invitante richiamo riscuoteva sempre successo con noi bambini,così correvamo a prendere l’ultimo gelato di Domenico. La sera della festa di San Vincenzo l'orchestra, diretta dal Maestro, si esibiva sul palchetto della Piazzetta ed eseguiva i famosi “pézzi”, che altro non erano che brani, pezzi d'opera famosi, scritti in una lavagna sulla parte destra del palco, dove ciascuno poteva leggere. Venivano eseguite opere come La Traviata, l'Aida, la Sinfonia n.40, il Nabucco. Il concerto si concludeva negli ultimi anni… con la Marcia di Radetzky. Il Maestro veniva omaggiato con fiori, consegnati da noi timidi bambini di paese. La festa di S. Vincenzo volgeva al termine. Una grande malinconia gonfiava i nostri piccoli cuori, che nella loro ingenua semplicità, sentivano già la leopardiana nostalgia de:” La sera del dì di festa”; ci avviavamo sull'aia per ammirare i fuochi artificiali, con le bocche aperte, gli sguardi attoniti, rivolgevamo gli occhi ai giochi di luce. Fontane azzurre, cascate di colori, stelle e arcobaleni, facevano giorno nella grande e buia vallata. Da ogni parte si udiva un esclamare gioioso: “Che bello, che bello!...”. Oggi come ieri, questo importante evento, del Santo autore di tanti miracoli, è molto sentito. La devozione, la tradizione è stata tramandata e accolta dalle nuove generazioni. L'unico cambiamento, è che l'immensa folla di gente di una volta, si è trasferita verso orizzonti nuovi, verso la Luce Celeste, “passando il testimone” ai giovani così volenterosi di continuare. C'era una volta e ancora c'è, in un paese baciato dal sole, la festa ‘e Sammincénzo.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.